Lascia o raddoppia? Investimenti e valorizzazione unica soluzione alla dispersione delle risorse

Il 16 Febbraio scorso, in occasione della visita ai Laboratori Nazionali del Gran Sasso, il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha tenuto un discorso in cui ha sottolineato l’importanza della ricerca per il Paese, rimarcando gli ingenti stanziamenti previsti nel PNRR, tra cui l’aumento delle borse di dottorato. Se da un lato guardiamo con favore al fatto che venga finalmente riconosciuto l’importante contributo che i giovani ricercatori e le giovani ricercatrici possono dare allo sviluppo scientifico, tecnologico, socio-economico  e culturale del Paese, dall’altro lato riteniamo necessario fare alcuni appunti e approfondimenti su queste pur gratificanti parole che, tuttavia, trovano un riscontro solo parziale nei fatti (si vedano, ad esempio, la recente riforma del dottorato e della pubblica amministrazione).

Viene enfatizzato l’aumento delle borse di dottorato, per sopperire al calo avuto nell’ultimo decennio sul numero totale di dottori e dottoresse di ricerca. Alla radice del problema vi è sicuramente la contrazione dei finanziamenti, che ha interessato l’accademia italiana da quando la riforma Gelmini è in atto, e che, insieme a precariato prolungato e bassi stipendi rappresenta uno dei principali problemi da risolvere se si vuole puntare su giovani ricercatori e ricercatrici. A ciò si aggiunge l’assoluta mancanza di prospettive di carriera e stabilizzazione nel comparto accademico e più in generale della ricerca, per cui è necessario che il Paese investa anche sulla carriera e sulla crescita professionale di dottorandi e dottorande, oltre che sul loro numero. 

Questo investimento però non dovrebbe limitarsi al solo ambito universitario. Se il Presidente del Consiglio ritiene che i giovani ricercatori e le giovani ricercatrici siano una risorsa per il Paese, è doveroso ricordare quanto ridotte siano le opportunità occupazionali al di fuori dell’accademia, anche nel settore pubblico. Il riconoscimento del titolo di dottore di ricerca è, nei fatti, del tutto assente nel settore della Pubblica Amministrazione.  In particolare è stato doloroso apprendere che, nonostante gli annunci e le promesse del Ministro Brunetta, il titolo di dottorato in molti concorsi venga ancora valutato alla pari, o forse meno, di alcuni master. In alcuni casi, il titolo viene riconosciuto con un limite temporale (ad esempio, solo se conseguito da non più di 10 anni alla data di pubblicazione del bando) ed è stato del tutto ignorato nell’ultima riforma, in cui si introduce un’Area IV per i funzionari dedicata alle Elevate Professionalità. Ciò risulta aggravato dal fatto che, a distanza di due anni dalle nostre interlocuzioni con l’allora Ministra Fabiana Dadone, mancano ancora i regolamenti ministeriali che avrebbero dovuto disciplinare le tabelle di valutazione dei titoli, al fine di dare effettiva attuazione alla legge n. 12 del 5 marzo 2020 che rendeva prioritaria la valutazione del dottorato tra i titoli rilevanti in sede di concorso.

Non va meglio nel settore privato, dove il dottorato di ricerca non è assolutamente considerato come esperienza lavorativa, oltre a non trovare spazio all’interno del CCNL. Non è infrequente che i dottori di ricerca che decidono di proseguire il loro percorso professionale in imprese private vengano equiparati a laureati magistrali, sia a livello di mansioni  che di retribuzione, vanificando di fatto il valore del titolo di dottorato. I dottorati industriali e innovativi, che avrebbero dovuto assolvere la funzione di cerniera tra dottorato e settore industriale, rimangono uno strumento inefficace, dal momento che al termine del percorso dottorale non è garantita una prosecuzione del rapporto di lavoro tra dottore/ssa di ricerca e azienda. Quand’anche una simile garanzia vi fosse, non vincola in alcun modo il livello di assunzione in ingresso. Sempre più spesso, invece, si trasformano in uno strumento di sfruttamento di personale altamente qualificato a basso costo, sicuramente vantaggioso per l’azienda che, per contro, delega all’Università gli oneri della sua formazione. 

Senza una visione a lungo termine e riforme strutturali, che coinvolgano MUR, MISE e MPA, l’aumento del numero di borse di dottorato rischia di avere come unico effetto quello di aumentare il numero di personale altamente qualificato che si ritroverà costretto a scegliere tra svolgere un lavoro in Italia al di sotto delle proprie capacità e conoscenze, o rivolgersi all’estero per poter soddisfare le proprie aspirazioni professionali.

Accanto a ciò, l’aumento della borsa di dottorato disposto in Legge di Bilancio 2021 non è neanche sufficiente all’adeguamento al nuovo minimale contributivo INPS, perpetuando la scarsa attenzione alla questione salariale: il dottorato in Italia è retribuito male, soprattutto quando raffrontato ad altri Paesi europei, quali Francia, Germania e Spagna. L’inadeguata e indegna retribuzione che caratterizza anche i successivi stadi di carriera di un giovane ricercatore precario, unita all’assenza di tutele fondamentali previste da un contratto di lavoro subordinato, si traduce in scarsa autonomia scientifica e organizzativa, in forme di ricattabilità basate sull’economia della promessa, in dipendenza cronica dal nucleo familiare di origine e in scarsa attrattività internazionale.

I nuovi dottorati di interesse nazionale previsti nell’ambito del PNRR rappresentano l’ennesimo esempio di intervento improntato ad una logica emergenziale e congiunturale, anziché organica e strutturale, che non permette un’agevole programmazione del lavoro scientifico, la necessaria continuità evocata dal professor Parisi. A fianco dei dottorati storici delle nostre Università, infatti, che bandiscono sei, otto, dieci borse di studio, si avranno dei mega-dottorati da almeno trenta borse di studio, attivati in consorzio tra più Enti e in partenariato con attori privati. Con tutta probabilità, saranno dei corpi estranei alle Università stesse, in difficoltà sia nel trovare così tanti docenti che possano garantire una formazione adeguata, sia nel reperire spazi adeguati ad ospitare un tale numero di ricercatori e ricercatrici.

L’attenzione del Presidente del Consiglio è benvenuta, così come i piani straordinari di reclutamento di ricercatori e professori che la Ministra Messa ha fortemente voluto nella Legge di Bilancio 2021. Tuttavia, è necessario pianificare un flusso costante di risorse, che permetta di stabilizzare le attuali situazioni di precariato e di garantire un orizzonte di carriera ai giovani ricercatori. È necessario adeguare le retribuzioni ai migliori standard europei. È necessario semplificare i concorsi e sfrondare il numero di figure che a diverso titolo lavorano in Università, nella direzione del ruolo unico della docenza e di un contratto unico di ricerca.

Una ricerca stabile, non precaria, non monopolizzata da gatekeepers che, complici gli scarsi fondi pubblici, controllano destini e carriere. Una ricerca autonoma e democratica. Questo chiediamo al governo, non un insensato e temporaneo raddoppio delle borse di dottorato, senza alcuna visione di sistema.

 

-------------------------------

Immagine messa a disposizione con licenza CC-BY-NC-SA 3.0 IT 3.0 tratta da https://www.governo.it/it/media/visita-ai-laboratori-nazionali-del-gran-sasso-dell-infn/19149