Ricerca e società ai tempi del Coronavirus: ne parliamo con Christian Raimo

L'ADI intervista Christian Raimo, docente, scrittore, fondatore di Minima&Moralia ed editorialista per Internazionale, sugli effetti del Coronavirus nella società e sul ruolo della ricerca. Secondo Raimo, la pandemia colpisce forte soprattutto le parti sociali più deboli ed è anche per questo che sono necessarie forme di tutela universali. Lo scrittore infatti condivide e sposa le richieste dell'ADI sull'estensione di ammortizzatori sociali anche per i precari della ricerca e le richieste di proroga per dottorandi e assegnisti. Come sostiene egli stesso, la società futura sarà basata sulla conoscenza ed abbiamo bisogno di più studiosi e più figure che lavorano nella ricerca, sia pubblica che privata. 

 

Il dibattito pubblico delle ultime settimane sembra aver contrapposto in modo particolarmente aspro la necessità di predisporre la massima tutela sanitaria con quella di far ripartire l’economia lasciandosi alle spalle il lockdown. Lei crede che esista una soluzione che bilanci queste due esigenze? E il governo è riuscito a centrarla?

Forse è una domanda troppo grande, esiste sicuramente un modo che è un compromesso per cercare di coinvolgere i vari attori politici nella discussione, ma ci sono settori in cui le diverse esigenze sono in contrasto. Ad esempio, negli asili nido, la tutela degli educatori contrasta con l’esigenza dei genitori al dover lavorare e lasciare i propri figli a qualcun altro. Questa pandemia ha mostrato come occorra coordinare tutte le varie discipline, le varie specificità dalle scienze dure alle scienze sociali, dalla fisica alla medicina territoriale, dalla comunicazione politica al valore dell’informazione. Dove questi sistemi funzionano al meglio, troviamo delle soluzioni politiche più complesse. Le comunità nazionali che hanno reagito meglio sono quelle da prendere come modello, ad esempio abbiamo la Nuova Zelanda e dall’altra il Brasile e gli Stati Uniti. Noi siamo nel mezzo, ci sono degli elementi di regresso anche culturale però esiste un welfare, un sistema sanitario che ha retto bene, una politica che ascolta e si fida della scienza, esistono gli organismi che hanno avuto la capacità di indirizzo come l’istituto superiore di sanità ed esiste una buona capacità di lettura dei fenomeni nonostante tutto. D’altra parte esistono delle spinte regressive come il fenomeno delle fake news e dell’infodemia nell'ambito della ricerca del consenso da parte di politici spregiudicati, se non addirittura criminali.

 

Secondo una certa narrazione  l’emergenza sanitaria del coronavirus ha coinvolto tutte le fasce sociali. Tuttavia nei fatti questa ha inasprito ancora di più le differenze sociali già esistenti, facendo ricadere tutto il peso della crisi sulle fasce della popolazione più vulnerabili. Lei cosa ne pensa?

A mio avviso, che la pandemia abbia colpito tutti e tutto è un po’ vero e un po’ è falso, nel senso che adesso ci stiamo accorgendo che le donne fossero meno colpiti dagli uomini o gli stranieri meno colpiti dagli italiani non per ragioni biologiche. Le donne sono state colpite meno perché lavorano meno, mentre gli stranieri non accedono con facilità alla sanità pubblica e quindi si ammalano, ma non lo sappiamo. Ci si ammala soprattutto in periferia perché ci sono più mezzi pubblici da prendere, ci sono spazi verdi, gli ambienti dove tutelarsi sono difficili e la popolazione ha meno accesso alle strutture sanitarie. Le differenze sociali contano, anche nella pandemia. È chiaro che nessuno sia immune. Le condizioni socio-economiche coincidono anche nel decorso delle malattia. La crisi economica sarà una macelleria sociale, ma sono fiducioso in un cambio di paradigma e che tutti si accorgano che serve un'iniezione di liquidità per tenere i consumi. L’austerità funziona poco in questo momento. Occorrono ricette di spesa sociale keynesiane.

 

Nelle università così come nella società tutta le figure rimaste più colpite da questa crisi, come dicevamo, sono proprio le più fragili e precarie. Lei crede che gli ammortizzatori sociali messi a disposizione fino ad adesso dal governo siano sufficienti? Ritiene che un reddito universale riuscirebbe a far fronte in modo più efficace a stanziare le risorse necessarie senza lasciare escluso nessuno?

È facile rispondere che gli ammortizzatori sociali non siano sufficienti, ma semplicemente perché non erano sufficienti neanche prima. La quantità di persone che fa ricerca sottofinanziata è enorme, ad esempio i dottorati senza borsa che sono un non sense, come si fa a fare ricerca di qualità senza borsa? O si ha un reddito di famiglia alto, oppure bisogna dedicarsi ad un altro lavoro che sottrae tempo alla ricerca. Anche le borse di dottorato riescono a coprire solo in parte il reddito di una persona. Una redistribuzione delle risorse andrebbe a favorire l’economia e a favorire un processo di uguaglianza, previsto anche dalla Costituzione italiana. Per me si aggiunge anche una convinzione politica, ma credo che sia necessario varare misure come un reddito sociale e misure di sostegno al reddito indipendenti dal lavoro e che siano date in maniera allargata, come avvenuto con Roosevelt dopo la crisi del ‘29. 

 

Il decreto aprile del Governo non ha previsto misure a sostegno dell’Università e della ricerca, ormai messe ai margini del tessuto sociale, nonostante la loro importanza, soprattutto in fasi delicate come quella che stiamo vivendo.Tuttavia da più parti si torna a parlare dell’esigenza di rimettere al centro il ruolo del soggetto pubblico. Secondo lei cosa possiamo aspettarci dal governo nei futuri provvedimenti? 

Abbiamo capito che servono persone formate. La futura società sarà basata sulla conoscenza. È ormai una necessità sociale. Ci vogliono più studiosi, più medici di base, più figure che lavorano nella ricerca sia pubblica che privata. 

 

Come ADI abbiamo chiesto al ministero delle proroghe retribuite per dottorandi e assegnisti di ricerca, in modo da garantire un certo margine in cui è possibile riprendere tutti i progetti di ricerca senza pregiudicare la prospettiva di carriera dei giovani ricercatori. Al contempo, in mancanza di un reddito universale, stiamo lavorando sull’estensione degli ammortizzatori sociali, specie per chi è meno tutelato. Come giudica le nostre proposte?

Sono fondamentali. Anche io sto facendo un dottorato, quando si ferma una ricerca è difficile riprenderla. Pensiamo ad un antropologo che fa ricerca sul campo e deve riprenderla, oppure riprendere un esperimento. La ricerca non si può spegnere e accendere in maniera arbitraria. Se le possibilità di accedere ad archivi e strutture si restringono, se i tempi non sono sufficienti, si cerca quello che si ha già pensato di trovare, mentre la ricerca consiste nel trovare quello che non si pensava di trovare, percorre strade inedite in un misto di caso e perspicacia.

 

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